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Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Un conclave a Venezia: il Patriarcato nella bufera




Non sono molte le fonti documentarie che permettono di cogliere l’atteggiamento della Chiesa veneziana durante il conclave tenuto a San Giorgio Maggiore nell’autunno-inverno 1799-1800 e forse questo spiega perché anche  la storiografia non vi ha insistito particolarmente, dedicando invece la propria attenzione allo studio dell’elezione di Pio VII.

Sull’ambiente veneziano, anche quello ecclesiale, pesavano drammaticamente i fatti di fine Settecento: la città viveva allora sotto lo choc dell’inaspettata fine della Repubblica aristocratica il 12 maggio 1797, seguita dalla  breve e tumultuosa parentesi democratica sotto il controllo delle truppe francesi e infine dal rovesciamento di clima politico-culturale e di fronte militare con la cessione del Veneto all’Austria. Si sa che fu proprio quest’ultimo passaggio, oltre che la situazione in cui si trovava Roma, a porre le precondizioni perché alla morte di Pio VI si individuasse nella città lagunare il luogo più adatto per indire il conclave.
Nella difficile situazione di quegli anni l’arrivo degli imperiali a Venezia nel gennaio 1798 aveva almeno tranquillizzato il patriarca Giovanelli, il primicerio di San Marco Foscari e gran parte del clero sul futuro che sarebbe stato riservato al cattolicesimo e alle istituzioni ecclesiastiche dai  nuovi governanti, anche se in realtà negli anni successivi Vienna avrebbe fatto sentire anche nel Veneto tutto il peso della propria politica ecclesiastica ispirata ai principi del giurisdizionalismo. Come è noto, alla fine del Settecento l’amministrazione ecclesiastica dell’area veneziana era suddivisa tra più soggetti. Gran parte di Venezia, con la Giudecca e altre isole lagunari, dipendevano dal Patriarcato, la cui cattedrale, la basilica di San Pietro di Castello, si trovava all’estremo lembo orientale della città. Anche l’isola di San Giorgio Maggiore, teatro del futuro conclave, cadeva sotto la giurisdizione del patriarca, poiché faceva parte della parrocchia della Giudecca.
Invece il centro di Venezia, con la basilica marciana e poche chiese a essa collegate costituivano la piccola, ma prestigiosa Chiesa ducale, una specie di diocesi nullius fondata sul giuspatronato del doge (secondo un diritto riconosciuto in modo incerto a partire dal IX secolo e definitivamente dal Trecento) e retta dal primicerio di San Marco, che aveva prerogative cresciute nel tempo fino a renderne l’ufficio quasi equiparabile a quello di un vescovo: tra l’altro il primicerio poteva celebrare i pontificali, conferire la prima tonsura e gli ordini minori e per un breve periodo della sua storia gli era stata attribuita anche la facoltà di ordinare i presbiteri. Perciò la Chiesa ducale era dotata di un suo clero e di un seminario (il seminario «gregoriano») deputato alla sua formazione.
Invece la laguna a nord di Venezia, con Murano, Burano e altre isole minori, formava la diocesi di Torcello, allora retta dal vescovo Nicolò Sagredo. Per limitare il campo d’indagine alla città,  va osservato che la Chiesa primiceriale e quella patriarcale si erano trovate entrambe in serie difficoltà durante i mesi della municipalità democratica provvisoria per la politica ecclesiastica che essa aveva adottato. Allora Giovanelli e Foscari avevano cercato di individuare un  modus vivendi che permettesse di tutelare nel migliore dei modi possibili le istituzioni ecclesiastiche poste sotto il loro rispettivo controllo. Alla Chiesa patriarcale l’operazione era riuscita, anche per l’interesse dei municipalisti a coltivare buoni rapporti con la Chiesa cattolica per ottenere, con il concorso del clero, un rafforzamento del consenso popolare verso le nuove autorità politiche.
Invece la manovra era risultata più ardua per il Primiceriato marciano non solo perché la fine della Repubblica aristocratica aveva comportato l’abolizione ipso facto della figura del giuspatrono, il doge, ma anche perché i nuovi governanti nel settembre 1797 progettarono la soppressione dell’ex Chiesa ducale e il suo accorpamento al Patriarcato: un’iniziativa di politica ecclesiastica che rientrava nei più ampi progetti di riordino della presenza delle istituzioni cattoliche sul territorio che solo la rapida fine della stagione giacobina veneziana impedì di realizzare in quei mesi, ma che fu poi ripresa e condotta a termine dal governo del napoleonico Regno d’Italia nel 1807. Tuttavia all’iniziale stato di smarrimento durante i mesi della municipalità democratica nelle autorità del Primiceriato di San Marco subentrò, dopo l’arrivo degli austriaci, un atteggiamento di resistenza volto a garantire la continuità dell’antica istituzione. Sul versante della stabilità giuridica il primicerio e la sua Curia si attrezzarono a trovare un’alternativa che, oltre a garantire formalmente sotto il profilo canonico la sopravvivenza della piccola enclave all’interno dal Patriarcato, le assicurasse l’appoggio dei nuovi governanti. Fu così che, non senza oscillazioni, l’ex Chiesa ducale fu ribattezzata «Chiesa imperiale» e si favorì il subentro dell’imperatore nei diritti di patronato che erano appartenuti in precedenza al doge.

«Studi Veneziani», n. s., 43 (2002), pp. 299 – 308 


L'abdicazione del Doge Ludovico Manin: il crollo del sistema politico veneto, ma anche dell'assetto ecclesiastico veneziano.

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