Uno sguardo veneto sulla Liturgia, musica e arte sacra, le attualità romane e le novità dalle terre della Serenissima.
Sul solco della continuità alla luce della Tradizione.

Quell'altare, quel rompicapo



di don Alfredo M. Morselli (da messainlatino.it) 

Recentemente il Card. Kurt Koch, nel corso di una conferenza svolta presso la facoltà teologica dell’università di Friburgo, ha ribadito che «l’attuale odierna pratica liturgica non sempre trova il suo reale fondamento nel Concilio: per esempio, la celebrazione verso il popolo non è mai stata prescritta dal Concilio».

Il Card. Joseph Ratzinger aveva scritto, in proposito, nel 2003: 
Per coloro che abitualmente frequentano la chiesa i due effetti più evidenti della riforma liturgica del Concilio Vaticano Secondo sembrano essere la scomparsa del latino e l'altare orientato verso il popolo. Chi ha letto i testi al riguardo si renderà conto con stupore che, in realtà, i decreti del Concilio non prevedono nulla di tutto questo. 
Non vi è nulla nel testo conciliare sull'orientamento dell'altare verso il popolo; quel punto è stato sollevato solo nelle istruzioni postconciliari. La direttiva più importante si ritrova al paragrafo 262 della Institutio Generalis Missalis Romani, l'Introduzione Generale al nuovo Messale Romano pubblicata nel 1969, e afferma: «L'altare maggiore sia costruito staccato dalla parete, per potervi facilmente girare intorno e celebrare rivolti verso il popolo (versus populum)».

Le Istruzioni Generali per il Messale, pubblicate nel 2002, mantenevano senza modifiche questa formulazione, tranne per l'aggiunta della clausola subordinata «la qual cosa è desiderabile ovunque sia possibile». In molti ambienti questo venne interpretato come un irrigidimento del testo del 1969, a indicare come fosse un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”. Tale interpretazione venne tuttavia respinta il 25 settembre 2000 dalla Congregazione per il Culto Divino, che dichiarò come la parola "expedit” (“è desiderabile”) non comportasse un obbligo, ma fosse un semplice suggerimento. La Congregazione afferma che si deve distinguere l'orientamento fisico dall'orientamento spirituale. Anche se un sacerdote celebra versus populum, deve sempre essere orientato versus Deum per Iesum Christum (verso Dio attraverso Gesù Cristo). Riti, simboli e parole non possono mai esaurire l'intima realtà del mistero della salvezza, ed è per questo motivo che la ammonisce contro le posizioni unilaterali e rigide in questo dibattito.

Si tratta di un chiarimento importante. Mette in luce quanto vi è di relativo nelle forme simboliche esterne della liturgia, e resiste al fanatismo che, purtroppo, non è stato estraneo alle controversie degli ultimi quarant'anni.

L’idea generalizzata secondo la quale c’è «un obbligo generale erigere altari di fronte al popolo “ovunque sia possibile”» ha fatto si che in quasi tutte le antiche chiese e cattedrali venisse costruito un nuovo altare maggiore senza rimuovere l’antico.

Ci chiediamo se ciò in realtà è coerente con la nuova normativa post-conciliare, o non sia piuttosto una forzatura, dovuta alle errate convinzioni che un nuovo altare rivolto al popolo sia obbligatorio e che questo non sia altro che l’indicazione del Concilio. 
I – La prassi in contrasto con la normativa. 
Vediamo cosa prescrive esattamente la normativa vigente:

Nelle chiese già costruite, quando il vecchio altare è collocato in modo da rendere difficile la partecipazione del popolo e non può essere rimosso senza danneggiare il valore artistico, si costruisca un altro altare fisso, realizzato con arte e debitamente dedicato. Soltanto sopra questo altare si compiano le sacre celebrazioni. Il vecchio altare non venga ornato con particolare cura per non sottrarre l'attenzione dei fedeli dal nuovo altare.

La prassi abituale è in contrasto con la normativa perché questa prevede la possibilità di un secondo altare fisso soltanto in un caso particolare, ben definito (quando la partecipazione del popolo è resa difficile), mentre in pratica un nuovo altare è stato collocato in quasi tutte le chiese antiche.

La gravità di questa generalizzazione sta tutta nel suo presupposto implicito: con la celebrazione verso l’abside la partecipazione attiva sarebbe sempre resa difficile.

E qui notiamo un duplice errore: in primo luogo si dimentica che partecipazione attiva nella liturgia è la partecipazione al Sacrificio di Cristo.

Scriveva il Card. Joseph Ratzinger nel 1999: 
Il concilio Vaticano II ci ha proposto come pensiero guida della celebrazione liturgica l'espressione participatio actuosa, partecipazione attiva di tutti all’Opus Dei, al culto divino. […] In che cosa consiste, però, questa partecipazione attiva? Che cosa bisogna fare? Purtroppo questa espressione è stata molto presto fraintesa e ridotta al suo significato esteriore, quello della necessità di un agire comune, quasi si trattasse di far entrare concretamente in azione il numero maggiore di persone possibile il più spesso possibile. La parola «partecipazione» rinvia, però, a un'azione principale, a cui tutti devono avere parte. Se, dunque, si vuole scoprire di quale agire si tratta, si deve prima di tutto accertare quale sia questa «actio» centrale, a cui devono avere parte tutti i membri della comunità. 

E qual è l’azione della liturgia?

La vera azione della liturgia, a cui noi tutti dobbiamo avere parte, è azione di Dio stesso.

Il Card. Joseph Ratzinger non ha certo detto, nelle sue pur profonde considerazioni, delle novità assolute. Questi stessi concetti erano già stati espressi da Pio XII, nel discorso Vous Nous avez demandé 
La liturgia della Messa ha come scopo di esprimere sensibilmente la grandezza del mistero che vi si compie, e gli sforzi attuali tendono a farvi partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente possibile. Benché questo intento sia giustificato, v'è pericolo di provocare una diminuzione della riverenza, se vien distolta l'attenzione dall'azione principale, per rivolgerla alla magnificenza di altre cerimonie. 

Qual è quest'azione principale del sacrificio eucaristico? Noi ne abbiamo parlato espressamente nell'Allocuzione del 2 novembre 1954. Noi riferivamo in primo luogo l'insegnamento del Concilio di Trento: 

In divino hoc sacrificio, quod in Missa peragitur, idem ille Christus continetur et incruente immolatur, qui in ara crucis semel se ipsum cruente obtulit... Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa (Conc. Trid., Sess. XXII, cap. 2)». 

Commentiamo ora questo brano: 

Giusti tutti gli sforzi che tendono a fare partecipare i fedeli nel modo più attivo ed intelligente... Ma… attenzione! – dice il Papa – , non si perda ciò che è principale, cioè la partecipazione all’Azione di Cristo!

Da un lato rimpiangiamo un po’ i pericoli di 50 anni fa: essere distolti dal cuore dell’azione liturgica dalla magnificenza delle cerimonie; oggi i pericoli sono i tanti ben peggiori abusi, accomunati da un comune denominatore: l’azione dell’assemblea viene a prevalere sull'azione di Cristo, sulla sua Immolazione Sacramentale, sul suo offrirsi: è a questa offerta che dobbiamo più che attivamente partecipare.

L’azione esterna, il fare, l’agire, non sono un valore assoluto, ma lo sono in tanto quanto ci permettono di unirci al Santo Sacrificio, tanto quanto ci permettono di essere quella gocciolina di acqua che il Sacerdote mette nel vino: questo gesto esprime come tutta la nostra vita viene sussunta nello stesso Sacrifico di Cristo, quel Sacrificio che realmente si riatualizza sull’Altare.
Se dunque la partecipazione liturgica è soprattutto l’unione al Sacrifico di Cristo, come è possibile che l’altare rivolto all’abside la renda difficoltosa? E come è possibile che per tanti secoli la Chiesa abbia creato difficoltà ai suoi figli in ciò che ha di più sacro? Eppure questo è il presupposto oggettivo della prassi generalizzata.
Vediamo ora il II errore: concediamo all'espressione partecipazione un significato meno tecnico, volendo indicare con essa semplicemente l’attenzione esteriore al rito, la partecipazione ai canti, il coinvolgimento nella gestualità: anche in questo caso, presupporre che, con l’altare rivolto verso l’abside, venga universalmente resa difficile la partecipazione del popolo (condizione necessaria – ricordiamo – per poter collocare un secondo altare fisso) è sempre una forzatura.
Scriveva a questo riguardo il Card. Giacomo Lercaro, in un documento ufficiale del Consilium ad exequendam Consitutionem de Sacra Liturgia: 
In primo luogo, per una liturgia viva e partecipata non è necessario che l’altare sia rivolto al popolo. Tutta la liturgia della parola, nella messa, si celebra alle sedi o all’ambone, e dunque di fronte al popolo; per la liturgia eucaristica, le installazioni di microfoni, ormai comuni, aiutano sufficientemente alla partecipazione. Inoltre bisogna tener conto della situazione architettonica e artistica la quale, in molti casi, è del resto protetta da severe leggi civili.

II – Altre forzature e incongruenze 
Un secondo altare a tutti i costi rivolto al popolo, assunto nella prassi come principio della liturgia conciliare, mal si concilia con altri aspetti del rinnovamento liturgico e con altre norme. Almeno in due casi troviamo di fronte a delle vere e proprie acrobazie giuridiche. 
1° principio disatteso: l’altare deve essere unico 
Le norme in questo senso parlano chiaro; ecco un paio di esempi:

L'unico altare, presso il quale si riunisce come in un sol corpo l'assemblea dei fedeli, è segno dell'unico nostro Salvatore Gesù Cristo e dell'unica Eucarestia della Chiesa.

Nelle nuove chiese si costruisca un solo altare che significhi alla comunità dei fedeli l'unico Cristo e l'unica Eucaristia della Chiesa.

Il noto liturgista, P. Matias Augé, per ribadire quanto – secondo lui – siano inopportuni gli altari laterali in una chiesa, evoca tutto il pathos di Sant’Ignazio d’Antiochia: 

Accorrete tutti come all’unico tempio di Dio, intorno all’unico altare che è l’unico Gesù Cristo che procedendo dall’unico Padre è ritornato a lui unito (Ai Magnesii VII,1). 

Ma se l’unicità dell’altare impedisce che si possa celebrare rivolti al popolo, allora ecco che un secondo altare diventa lecito. Che fare in questi casi: toglier le tovaglie e non adornare l’altare maggiore precedente. Una sorta di sbattezzo dell’altare.

Nel caso in cui l'altare preesistente venisse conservato, si eviti di coprire la sua mensa con la tovaglia e lo si adorni molto sobriamente, in modo da lasciare nella dovuta evidenza la mensa dell'unico altare per la celebrazione

Ma, chiediamoci, è forse la tovaglia che rende un altare tale? Capolavori d’arte, adornati per secoli con tanta cura, con ricami, con fiori, con ceri, con tovaglie, ora lasciati nudi come non sono mai stati pensati da chi li ha fatti… e tutto perché l’altare deve essere unico, anche quando sono due. 
2° principio disatteso: l’altare deve essere fisso 
Conviene che in ogni chiesa ci sia l'altare fisso, che significa più chiaramente e permanentemente Gesù Cristo, pietra viva (Cf. 1Pt 2,4; Ef 2,20); negli altri luoghi, destinati alle celebrazioni sacre, l'altare può essere mobile.

L'altare si dice fisso se è costruito in modo da aderire al pavimento e non poter quindi venir rimosso; si dice invece mobile se lo si può trasportare.

E quando non si può celebrare rivolti al popolo, allora anche questo principio è derogato: si faccia l’altare mobile, che però deve essere definitivo.

L’altare fisso della celebrazione sia unico e rivolto al popolo. Nel caso di difficili soluzioni artistiche per l’adattamento di particolari chiese e presbitèri, si studi, sempre d’intesa con le competenti Commissioni diocesane, l’opportunità di un altare «mobile» appositamente progettato e definitivo.

Qualora non sia possibile erigere un nuovo altare fisso, si studi comunque la realizzazione di un altare definitivo, anche se non fisso (cioè amovibile).

Cosa vuol dire altare definitivo e mobile: che sia trasportabile ma che si sempre quello? Oppure che non sia murato definitivamente? Oppure che sia trasportabile, ma lasciato sempre al suo posto?

Questa indicazione sa tanto di acrobazia, per collocare in ogni caso un altare rivolto al popolo, anche quando c’è già un altare maggiore e quando la Sovrintendenza ai beni artistici non permette la costruzione di un nuovo altare fisso. 
Conclusioni. 
In base a quanto detto, l’idea dell’altare a tutti i costi rivolto al popolo, ritenuta generalmente – a torto – un principio conciliare per eccellenza, ha fatto sì che molte antiche chiese venissero adeguate indebitamente con un secondo altare fisso. Stando alla lettera della normativa, si tratta di un abuso: abuso pericoloso perché fa intendere che il modo di celebrare per tanti secoli abbia reso difficile la partecipazione del popolo alla liturgia.

Se il Concilio non ha mai parlato di celebrazione verso il popolo, l’idea che l’altare a tutti i costi debba essere ad esso rivolto, e il conseguente riadattamento forzoso degli antichi edifici di culto, non sarà forse uno dei tristi effetti di ciò che Mons. Guido Pozzo, segretario della Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiamato ideologia para-conciliare?

Se il Santo Padre parla di due interpretazioni o chiavi di lettura divergenti, una della discontinuità o rottura con la Tradizione cattolica, e una del rinnovamento nella continuità, ciò significa che la questione cruciale o il punto veramente determinante all'origine del travaglio, del disorientamento e della confusione che hanno caratterizzato e ancora caratterizzano in parte i nostri tempi non è il Concilio Vaticano II come tale, non è l’insegnamento oggettivo contenuto nei suoi Documenti, ma è l’interpretazione di tale insegnamento. […]

Sta ciò che possiamo chiamare l’ideologia conciliare, o più esattamente para-conciliare, che si è impadronita del Concilio fin dal principio, sovrapponendosi a esso. Con questa espressione, non si intende qualcosa che riguarda i testi del Concilio, né tanto meno l’intenzione dei soggetti, ma il quadro di interpretazione globale in cui il Concilio fu collocato e che agì come una specie di condizionamento interiore nella lettura successiva dei fatti e dei documenti. Il Concilio non è affatto l’ideologia paraconciliare, ma nella storia della vicenda ecclesiale e dei mezzi di comunicazione di massa ha operato in larga parte la mistificazione del Concilio, cioè appunto l’ideologia paraconciliare.

Alla chiesa docente la risposta; a chi scrive, membro della chiesa discente, la possibilità di porre rispettosamente la domanda.

Moraglia Patriarca: come un semplice Vescovo



de Vatican Insider 
“Mi piacerebbe essere sempre percepito come Vescovo, primo servitore della Chiesa cui sono mandato. E' iniziato un nuovo tratto di strada nella mia vita. Un capitolo nuovo che sento di dover scrivere da veneziano con i veneziani, guardando insieme a loro sempre e solo il Signore Gesù, il risorto, il vivente": inizia così l'intervista esclusiva rilasciata da mons.Francesco Moraglia, Patriarca eletto di Venezia, al settimanale diocesano Gente Veneta che la pubblica sul numero oggi in uscita.

Sulla sua nuova città e Chiesa mons. Moraglia afferma tra l'altro: "Sono stato a Venezia poche volte e per poco tempo, anche se la parlata veneziana da sempre mi affascina, per me è una specie di musica. In questo periodo ho scelto di non farmi idee sulla diocesi. Penso di formarmele, con l'aiuto del Signore, di volta in volta, incontrando le persone e in contatto con le situazioni concrete".
E aggiunge che "per il Vescovo non è possibile operare riduzioni e identificare Venezia con una sola delle sue dimensioni: questa città, veramente unica, non può in alcun modo, prescindere dalla policromia dei suoi colori e dalla polifonia dei suoi suoni, non può prescindere dalla sua prismaticità". "E' mio desiderio - osserva - esser vicino al mondo del lavoro… Il lavoro appartiene all'uomo, alle famiglie e alla comunità civile. Non dovrebbe mai essere motivo di scontro, suscitando, invece, corresponsabilità in vista di una convivenza realmente civile, nella quale il cittadino partecipa dando il meglio di sé".
Ai preti veneziani, parte dei quali ha incontrato ieri nel corso di una visita privata che si è concluso oggi, mons. Moraglia dice di considerarli "i primi e più preziosi collaboratori e spero che presto avvertano il Patriarca come una presenza amica, fraterna, che li conosce e che essi, a loro volta, conoscono. Vorrei che sentissero come fin d'ora li amo nel cuore di Cristo".
Il Patriarca eletto si rivolge, infine, ai giovani: "Non voglio illuderli con vuote parole o proponendo loro sollecitazioni emotive. Desidero dire loro, con forza e grande libertà, che in una cultura e in una società dove tutto pare declinarsi in termini di precariato e precarietà, bisogna ritrovare la forte idealità del Vangelo che coincide con la persona di Gesù Cristo che, nella concretezza e realtà della sua vicenda personale, profondamente umana, dà senso e valore a tutte le dimensioni della nostra umanità".

Super flumina Babylonis: la prova, la speranza




L'esilio degli ebrei, la Quaresima. Come un popolo oppresso che spera di rivedere la terra da cui è stato strappato, il cristiano afflitto dal peccato anela alla salvezza, la Pasqua. Lungo i fiumi di Babilonia ricordando Sion, il grido dell'afflitto traboccante di speranza. Deposti sono gli strumenti musicali: è tempo della prova, del silenzio. 



Super flumina Babylonis illic sedimus et flevimus, cum 
recordaremur Sion.

In salicibus in medio ejus suspendimus organa nostra







Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion.  
Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre 




Quaresima 2012

Il Concistoro di Benedetto: la monumentale omelia della Messa




Signori Cardinali,  
venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,

cari fratelli e sorelle!

Nella solennità della Cattedra di san Pietro Apostolo, abbiamo la gioia di radunarci intorno all’Altare del Signore insieme con i nuovi Cardinali, che ieri ho aggregato al Collegio Cardinalizio. Ad essi, innanzitutto, rivolgo il mio cordiale saluto, ringraziando il Cardinale Fernando Filoni per le cortesi parole rivoltemi a nome di tutti.
Estendo il mio saluto agli altri Porporati e a tutti Presuli presenti, come pure alle distinte Autorità, ai Signori Ambasciatori, ai sacerdoti, ai religiosi e a tutti i fedeli, venuti da varie parti del mondo per questa lieta circostanza, che riveste uno speciale carattere di universalità.
Nella seconda Lettura poc’anzi proclamata, l’Apostolo Pietro esorta i “presbiteri” della Chiesa ad essere pastori zelanti e premurosi del gregge di Cristo (cfr 1 Pt 5,1-2). Queste parole sono anzitutto rivolte a voi, cari e venerati Fratelli, che già avete molti meriti presso il Popolo di Dio per la vostra generosa e sapiente opera svolta nel Ministero pastorale in impegnative Diocesi, o nella direzione dei Dicasteri della Curia Romana, o nel servizio ecclesiale dello studio e dell’insegnamento. La nuova dignità che vi è stata conferita vuole manifestare l’apprezzamento per il vostro fedele lavoro nella vigna del Signore, rendere onore alle Comunità e alle Nazioni da cui provenite e di cui siete degni rappresentanti nella Chiesa, investirvi di nuove e più importanti responsabilità ecclesiali, ed infine chiedervi un supplemento di disponibilità per Cristo e per l’intera Comunità cristiana.

Questa disponibilità al servizio del Vangelo è saldamente fondata sulla certezza della fede. Sappiamo infatti che Dio è fedele alle sue promesse ed attendiamo nella speranza la realizzazione di queste parole dell’apostolo Pietro: “E quando apparirà il Pastore supremo, riceverete la corona della gloria che non appassisce” (1 Pt 5,4).
Il brano evangelico odierno presenta Pietro che, mosso da un’ispirazione divina, esprime la propria salda fede in Gesù, il Figlio di Dio ed il Messia promesso. In risposta a questa limpida professione di fede, fatta da Pietro anche a nome degli altri Apostoli, Cristo gli rivela la missione che intende affidargli, quella cioè di essere la “pietra”, la “roccia”, il fondamento visibile su cui è costruito l’intero edificio spirituale della Chiesa (cfr Mt 16,16-19).

Tale denominazione di “roccia-pietra” non fa riferimento al carattere della persona, ma va compresa solo a partire da un aspetto più profondo, dal mistero: attraverso l’incarico che Gesù gli conferisce, Simon Pietro diventerà ciò che egli non è attraverso «la carne e il sangue».

L’esegeta Joachim Jeremias ha mostrato che sullo sfondo è presente il linguaggio simbolico della «roccia santa». Al riguardo può aiutarci un testo rabbinico in cui si afferma: «Il Signore disse: “Come posso creare il mondo, quando sorgeranno questi senza-Dio e mi si rivolteranno contro?”. Ma quando Dio vide che doveva nascere Abramo, disse: “Guarda, ho trovato una roccia, sulla quale posso costruire e fondare il mondo”. Perciò egli chiamò Abramo una roccia». Il profeta Isaia vi fa riferimento quando ricorda al popolo «guardate alla roccia da cui siete stati tagliati… ad Abramo vostro padre» (51,1-2). Abramo, il padre dei credenti, con la sua fede viene visto come la roccia che sostiene la creazione. Simone, che per primo ha confessato Gesù come il Cristo ed è stato il primo testimone della risurrezione, diventa ora, con la sua fede rinnovata, la roccia che si oppone alle forze distruttive del male.
Cari fratelli e sorelle! Questo episodio evangelico che abbiamo ascoltato trova una ulteriore e più eloquente spiegazione in un conosciutissimo elemento artistico che impreziosisce questa Basilica Vaticana: l’altare della Cattedra.

Quando si percorre la grandiosa navata centrale e, oltrepassato il transetto, si giunge all’abside, ci si trova davanti a un enorme trono di bronzo, che sembra librarsi, ma che in realtà è sostenuto dalle quattro statue di grandi Padri della Chiesa d’Oriente e d’Occidente. E sopra il trono, circondata da un trionfo di angeli sospesi nell’aria, risplende nella finestra ovale la gloria dello Spirito Santo. Che cosa ci dice questo complesso scultoreo, dovuto al genio del Bernini? Esso rappresenta una visione dell’essenza della Chiesa e, all’interno di essa, del magistero petrino.
La finestra dell’abside apre la Chiesa verso l’esterno, verso l’intera creazione, mentre l’immagine della colomba dello Spirito Santo mostra Dio come la fonte della luce. Ma c’è anche un altro aspetto da evidenziare: la Chiesa stessa è, infatti, come una finestra, il luogo in cui Dio si fa vicino, si fa incontro al nostro mondo.

La Chiesa non esiste per se stessa, non è il punto d’arrivo, ma deve rinviare oltre sé, verso l’alto, al di sopra di noi. La Chiesa è veramente se stessa nella misura in cui lascia trasparire l’Altro - con la “A” maiuscola - da cui proviene e a cui conduce. La Chiesa è il luogo dove Dio “arriva” a noi, e dove noi “partiamo” verso di Lui; essa ha il compito di aprire oltre se stesso quel mondo che tende a chiudersi in se stesso e portargli la luce che viene dall’alto, senza la quale diventerebbe inabitabile.
La grande cattedra di bronzo racchiude un seggio ligneo del IX secolo, che fu a lungo ritenuto la cattedra dell’apostolo Pietro e fu collocato proprio su questo altare monumentale a motivo del suo alto valore simbolico.

Esso, infatti, esprime la presenza permanente dell’Apostolo nel magistero dei suoi successori. Il seggio di san Pietro, possiamo dire, è il trono della verità, che trae origine dal mandato di Cristo dopo la confessione a Cesarea di Filippo. Il seggio magisteriale rinnova in noi anche la memoria delle parole rivolte dal Signore a Pietro nel Cenacolo: “Io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,32).
La cattedra di Pietro evoca un altro ricordo: la celebre espressione di sant’Ignazio di Antiochia, che nella sua lettera ai Romani chiama la Chiesa di Roma “quella che presiede nella carità” (Inscr.: PG 5, 801). In effetti, il presiedere nella fede è inscindibilmente legato al presiedere nell’amore.

Una fede senza amore non sarebbe più un’autentica fede cristiana. Ma le parole di sant’Ignazio hanno anche un altro risvolto, molto più concreto: il termine “carità”, infatti, veniva utilizzato dalla Chiesa delle origini per indicare anche l’Eucaristia.

L’Eucaristia, infatti, è Sacramentum caritatis Christi, mediante il quale Egli continua ad attirarci tutti a sé, come fece dall’alto della croce (cfr Gv 12,32). Pertanto, “presiedere nella carità” significa attirare gli uomini in un abbraccio eucaristico - l’abbraccio di Cristo -, che supera ogni barriera e ogni estraneità, e crea la comunione dalle molteplici differenze.

Il ministero petrino è dunque primato nell’amore in senso eucaristico, ovvero sollecitudine per la comunione universale della Chiesa in Cristo. E l’Eucaristia è forma e misura di questa comunione, e garanzia che essa si mantenga fedele al criterio della tradizione della fede. 

La grande Cattedra è sostenuta dai Padri della Chiesa.

I due maestri dell’Oriente, san Giovanni Crisostomo e sant’Atanasio, insieme con i latini, sant’Ambrogio e sant’Agostino, rappresentano la totalità della tradizione e, quindi, la ricchezza dell’espressione della vera fede dell’unica Chiesa. Questo elemento dell’altare ci dice che l’amore poggia sulla fede. Esso si sgretola se l’uomo non confida più in Dio e non obbedisce a Lui. Tutto nella Chiesa poggia sulla fede: i Sacramenti, la Liturgia, l’evangelizzazione, la carità.
Anche il diritto, anche l’autorità nella Chiesa poggiano sulla fede. La Chiesa non si auto-regola, non dà a se stessa il proprio ordine, ma lo riceve dalla Parola di Dio, che ascolta nella fede e cerca di comprendere e di vivere. I Padri della Chiesa hanno nella comunità ecclesiale la funzione di garanti della fedeltà alla Sacra Scrittura. Essi assicurano un’esegesi affidabile, solida, capace di formare con la cattedra di Pietro un complesso stabile e unitario. Le Sacre Scritture, interpretate autorevolmente dal Magistero alla luce dei Padri, illuminano il cammino della Chiesa nel tempo, assicurandole un fondamento stabile in mezzo ai mutamenti storici.
Dopo aver considerato i diversi elementi dell’altare della Cattedra, rivolgiamo ad esso uno sguardo d’insieme. E vediamo che è attraversato da un duplice movimento: di ascesa e di discesa. E’ la reciprocità tra la fede e l’amore. La Cattedra è posta in grande risalto in questo luogo, poiché qui vi è la tomba dell’apostolo Pietro, ma anch’essa tende verso l’amore di Dio. In effetti, la fede è orientata all’amore. Una fede egoistica sarebbe una fede non vera. Chi crede in Gesù Cristo ed entra nel dinamismo d’amore che nell’Eucaristia trova la sorgente, scopre la vera gioia e diventa a sua volta capace di vivere secondo la logica di questo dono. 

La vera fede è illuminata dall’amore e conduce all’amore, verso l’alto, come l’altare della Cattedra eleva verso la finestra luminosa, la gloria dello Spirito Santo, che costituisce il vero punto focale per lo sguardo del pellegrino quando varca la soglia della Basilica Vaticana. A quella finestra il trionfo degli angeli e le grandi raggiere dorate danno il massimo risalto, con un senso di pienezza traboccante che esprime la ricchezza della comunione con Dio. Dio non è solitudine, ma amore glorioso e gioioso, diffusivo e luminoso.
Cari fratelli e sorelle, a noi, ad ogni cristiano è affidato il dono di questo amore: un dono da donare, con la testimonianza della nostra vita. Questo è, in particolare, il vostro compito, venerati Fratelli Cardinali: testimoniare la gioia dell’amore di Cristo. Alla Vergine Maria, presente nella Comunità apostolica riunita in preghiera in attesa dello Spirito Santo (cfr At 1,14), affidiamo ora il vostro nuovo servizio ecclesiale. Ella, Madre del Verbo Incarnato, protegga il cammino della Chiesa, sostenga con la sua intercessione l’opera dei Pastori ed accolga sotto il suo manto l’intero Collegio cardinalizio. Amen!

BENEDICTUS PP. XVI  
Santa Messa con i nuovi Cardinali nella Solennità della Cattedra di San Pietro Apostolo,  
19 febbraio 2012, omelia




Il Concistoro di Benedetto: l'allocuzione e qualche scatto




«Tu es Petrus, et super hanc petram aedificabo Ecclesiam meam». 
Venerati Fratelli,

cari fratelli e sorelle! 
Con queste parole il canto d’ingresso ci ha introdotto nel solenne e suggestivo rito del Concistoro ordinario pubblico per la creazione dei nuovi Cardinali, l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del titolo. Sono le parole efficaci con le quali Gesù ha costituito Pietro quale saldo fondamento della Chiesa. Di tale fondamento la fede rappresenta il fattore qualificativo: infatti Simone diventa Pietro – roccia – in quanto ha professato la sua fede in Gesù Messia e Figlio di Dio. Nell’annuncio di Cristo la Chiesa viene legata a Pietro e Pietro viene posto nella Chiesa come roccia; ma colui che edifica la Chiesa è Cristo stesso, Pietro deve essere un elemento particolare della costruzione. Deve esserlo mediante la fedeltà alla sua confessione fatta presso Cesarea di Filippo, in forza dell’affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente».

Le parole rivolte da Gesù a Pietro mettono bene in risalto il carattere ecclesiale dell’odierno evento. I nuovi Cardinali, infatti, tramite l’assegnazione del titolo di una chiesa di questa Città o di una Diocesi suburbicaria, vengono inseriti a tutti gli effetti nella Chiesa di Roma guidata dal Successore di Pietro, per cooperare strettamente con lui nel governo della Chiesa universale. Questi cari Confratelli, che fra poco entreranno a far parte del Collegio Cardinalizio, si uniranno con nuovi e più forti legami non solo al Romano Pontefice ma anche all’intera comunità dei fedeli sparsa in tutto il mondo. Nello svolgimento del loro particolare servizio a sostegno del ministero petrino, i neo-porporati saranno infatti chiamati a considerare e valutare le vicende, i problemi e i criteri pastorali che toccano la missione di tutta la Chiesa. In questo delicato compito sarà loro di esempio e di aiuto la testimonianza di fede resa con la vita e con la morte dal Principe degli Apostoli, il quale, per amore di Cristo, ha donato tutto se stesso fino all’estremo sacrificio.

E’ con questo significato che è da intendere anche l’imposizione della berretta rossa. Ai nuovi Cardinali è affidato il servizio dell’amore: amore per Dio, amore per la sua Chiesa, amore per i fratelli con una dedizione assoluta e incondizionata, fino all’effusione del sangue, se necessario, come recita la formula di imposizione della berretta e come indica il colore rosso degli abiti indossati. A loro, inoltre, è chiesto di servire la Chiesa con amore e vigore, con la limpidezza e la sapienza dei maestri, con l’energia e la fortezza dei pastori, con la fedeltà e il coraggio dei martiri. Si tratta di essere eminenti servitori della Chiesa che trova in Pietro il visibile fondamento dell’unità.
Nel brano evangelico poc’anzi proclamato, Gesù si presenta come servo, offrendosi quale modello da imitare e da seguire. Dallo sfondo del terzo annuncio della passione, morte e risurrezione del Figlio dell’uomo, si stacca con stridente contrasto la scena dei due figli di Zebedeo, Giacomo e Giovanni, che inseguono ancora sogni di gloria accanto a Gesù. Essi gli chiesero: «Concedici di sedere, nella tua gloria, uno alla tua destra e uno alla tua sinistra» (Mc 10,37). Folgorante è la replica di Gesù e inatteso il suo interrogativo: «Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io bevo?» (v. 38). L’allusione è chiarissima: il calice è quello della passione, che Gesù accetta per attuare la volontà del Padre. Il servizio a Dio e ai fratelli, il dono di sé: questa è la logica che la fede autentica imprime e sviluppa nel nostro vissuto quotidiano e che non è invece lo stile mondano del potere e della gloria.
Giacomo e Giovanni con la loro richiesta mostrano di non comprendere la logica di vita che Gesù testimonia, quella logica che - secondo il Maestro - deve caratterizzare il discepolo, nel suo spirito e nelle sue azioni. E la logica errata non abita solo nei due figli di Zebedeo perché, secondo l’evangelista, contagia anche «gli altri dieci» apostoli che «cominciarono a indignarsi con Giacomo e Giovanni» (v. 41). Si indignano, perché non è facile entrare nella logica del Vangelo e lasciare quella del potere e della gloria. San Giovanni Crisostomo afferma che tutti gli apostoli erano ancora imperfetti, sia i due che vogliono innalzarsi sopra i dieci, sia gli altri che hanno invidia di loro (cfr Commento a Matteo, 65, 4: PG 58, 622). E commentando i passi paralleli nel Vangelo secondo Luca, san Cirillo di Alessandria aggiunge: «I discepoli erano caduti nella debolezza umana e stavano discutendo l’un l’altro su chi fosse il capo e superiore agli altri … Questo è accaduto e ci è stato raccontato per il nostro vantaggio… Quanto è accaduto ai santi Apostoli può rivelarsi per noi un incentivo all’umiltà» (Commento a Luca, 12, 5, 24: PG 72, 912). Questo episodio dà modo a Gesù di rivolgersi a tutti i discepoli e «chiamarli a sé», quasi per stringerli a sé, a formare come un corpo unico e indivisibile con Lui e indicare qual è la strada per giungere alla vera gloria, quella di Dio: «Voi sapete che coloro i quali sono considerati i governanti delle nazioni dominano su di esse e i loro capi le opprimono. Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,42-44).
Dominio e servizio, egoismo e altruismo, possesso e dono, interesse e gratuità: queste logiche profondamente contrastanti si confrontano in ogni tempo e in ogni luogo. Non c’è alcun dubbio sulla strada scelta da Gesù: Egli non si limita a indicarla con le parole ai discepoli di allora e di oggi, ma la vive nella sua stessa carne. Spiega infatti: «Anche il Figlio dell’uomo non è venuto a farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto di molti» (v. 45). Queste parole illuminano con singolare intensità l’odierno Concistoro pubblico. Esse risuonano nel profondo dell’anima e rappresentano un invito e un richiamo, una consegna e un incoraggiamento specialmente per voi, cari e venerati Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio.
Secondo la tradizione biblica, il Figlio dell’uomo è colui che riceve il potere e il dominio da Dio (cfr Dn 7,13s). Gesù interpreta la sua missione sulla terra sovrapponendo alla figura del Figlio dell’uomo quella del Servo sofferente, descritto da Isaia (cfr Is 53,1-12). Egli riceve il potere e la gloria solo in quanto «servo»; ma è servo in quanto accoglie su di sé il destino di dolore e di peccato di tutta l’umanità. Il suo servizio si attua nella fedeltà totale e nella responsabilità piena verso gli uomini. Per questo la libera accettazione della sua morte violenta diventa il prezzo di liberazione per molti, diventa l’inizio e il fondamento della redenzione di ciascun uomo e dell’intero genere umano.
Cari Fratelli che state per essere annoverati nel Collegio Cardinalizio! Il dono totale di sé offerto da Cristo sulla croce sia per voi principio, stimolo e forza per una fede che opera nella carità. La vostra missione nella Chiesa e nel mondo sia sempre e solo «in Cristo», risponda alla sua logica e non a quella del mondo, sia illuminata dalla fede e animata dalla carità che provengono a noi dalla Croce gloriosa del Signore. Sull’anello che tra poco vi consegnerò, sono raffigurati i santi Pietro e Paolo, con al centro una stella che evoca la Madonna. Portando questo anello, voi siete richiamati quotidianamente a ricordare la testimonianza che i due Apostoli hanno dato a Cristo fino alla morte per martirio qui a Roma, fecondando così la Chiesa con il loro sangue. Mentre il richiamo alla Vergine Maria, sarà sempre per voi un invito a seguire colei che fu salda nella fede e umile serva del Signore.
Concludendo questa breve riflessione, vorrei rivolgere il mio cordiale saluto e ringraziamento a tutti voi presenti, in particolare alle Delegazioni ufficiali di vari Paesi e alle Rappresentanze di numerose Diocesi. I nuovi Cardinali, nel loro servizio, sono chiamati a rimanere sempre fedeli a Cristo, lasciandosi guidare unicamente dal suo Vangelo. Cari fratelli e sorelle, pregate perché in essi possa rispecchiarsi al vivo il nostro unico Pastore e Maestro, il Signore Gesù, fonte di ogni sapienza, che indica la strada a tutti. E pregate anche per me, affinché possa sempre offrire al Popolo di Dio la testimonianza della dottrina sicura e reggere con mite fermezza il timone della santa Chiesa. Amen!

BENEDICTUS PP. XVI 
Concistorio Ordinario Pubblico, sabato 18 febbraio 2012, allocuzione







Moraglia Patriarca: l'arrivo, i particolari




Il grande appuntamento è fissato per il 24 e 25 marzo. Due giornate, ricche di incontri, segneranno infatti l’ingresso ufficiale nella diocesi veneziana del Patriarca eletto mons. Francesco Moraglia: è quanto emerge dalla prima tornata di lavori dell’apposito Comitato di accoglienza, costituito subito dopo l’annuncio della nomina e che ora - in specifiche e più allargate commissioni - sta verificando tempi e orari, modalità e dettagli di ogni singolo momento. Alcuni punti fermi si stanno, comunque, già consolidando. 
Sabato pomeriggio: l’arrivo a Mira e il passaggio in Riviera e a Marghera. Mons. Francesco Moraglia arriverà con mezzi privati al confine occidentale della diocesi, cioè a Mira, nel primo pomeriggio di sabato 24 marzo (intorno alle ore 15.00) e qui, nel piazzale della chiesa di Mira Taglio, riceverà il primo saluto della sua “nuova” comunità ecclesiale e cittadina attraverso gli interventi del vicario foraneo e del sindaco di Mira. Proseguirà lungo la strada del naviglio del Brenta salutando “in corsa” chi incontrerà lungo la Riviera e poi anche a S. Antonio di Marghera. Sosterà quindi (verso le 16.15) nella chiesa parrocchiale di Gesù Lavoratore, in via Fratelli Bandiera a Marghera, dove incontrerà un gruppo di rappresentanti del mondo del lavoro. 
A Mestre (Sacro Cuore) per l’incontro con i giovani, l’adorazione eucaristica e poi alla mensa di Ca’ Letizia per servire la cena ai poveri della città. Di seguito si dirigerà a Mestre per un grande incontro con tutti i giovani del Patriarcato che si terrà, a partire dalle ore 17.00 circa, presso la chiesa parrocchiale del Sacro Cuore di Mestre: ci sarà un momento di preghiera e di adorazione eucaristica e, in questo speciale contesto, avverrà il primo saluto ed intervento che il neo Patriarca rivolgerà ai giovani veneziani intorno al tema “Eucaristia, Carità di Cristo e Chiesa”. Tale appuntamento sostituirà quello della Via Crucis (prevista il 31 marzo e, ora, annullata). E poiché dalla preghiera alla carità non solo il passo è breve ma profondamente intrecciato, subito dopo, mons. Moraglia - accompagnato da un piccolo gruppo di giovani e dai seminaristi della diocesi - si sposterà (verso le 18.30) in via Querini, nella mensa di Ca’ Letizia, per la cena offerta ai poveri della città e servita dal Patriarca stesso, insieme a giovani e volontari. Al termine si prevede anche - nel contiguo Centro pastorale Papa Luciani - un breve incontro con i seminaristi, i giovani e i volontari della San Vincenzo Mestrina prima di recarsi, in conclusione di giornata, al Centro pastorale card Urbani di Zelarino. 
Domenica mattina: visita al Centro Nazaret di Zelarino, tappa a S. Lorenzo Giustiniani e poi in Piazza Ferretto e nel Duomo di Mestre. La mattina di domenica 25 marzo prevede, come primo appuntamento per mons. Moraglia, la visita al Centro Nazaret di Zelarino con una particolare attenzione ai preti ammalati lì presenti. Entrerà quindi a Mestre fermandosi brevemente (intorno alle 11.00) presso la parrocchia di S. Lorenzo Giustiniani, una scelta di spiccato valore simbolico in quanto è intitolata a colui che fu il primo Patriarca di Venezia. Attraversando Piazza Ferretto si recherà poi nel Duomo di Mestre per l’incontro pubblico con la comunità mestrina (ore 11.45); nella chiesa intitolata a S. Lorenzo riceverà il saluto dell’arciprete del Duomo e, di seguito, tornerà al centro pastorale di Zelarino per un veloce pranzo e già pronto a partire verso la città d’acqua. 
Domenica pomeriggio: l’Infiorata davanti alla stazione S. Lucia, il corteo acqueo in Canal Grande, la tappa alla Salute, il saluto ufficiale al Molo e la messa nella cattedrale marciana. Alle 14.00 è fissato, infatti, il suo arrivo a Piazzale Roma; da qui il Patriarca percorrerà il ponte di Calatrava per arrivare davanti alla stazione ferroviaria di S. Lucia. E’ il giorno dell’Annunciazione e quindi, secondo una bella tradizione, del gesto e della preghiera dell’Infiorata: a questo momento sono particolarmente invitati i bambini veneziani con le loro famiglie. Da S. Lucia inizierà poi il corteo acqueo che porterà mons. Moraglia lungo il Canal Grande (durante il percorso le parrocchie vicine suoneranno le campane a festa) e fino alla basilica della Salute (orario previsto: 15.15) dove, dopo il saluto e l’accoglienza da parte del rettore, rivolgerà una preghiera alla Vergine Maria e saluterà chi (veneziano o turista) sarà presente in questa chiesa che potrà, poi, essere utilizzata da quanti non seguiranno le fasi della celebrazione a San Marco ma vorranno egualmente partecipare al momento culminante dell’ingresso attraverso il collegamento televisivo attivo, appunto, alla Salute. Il Patriarca risalirà allora in gondola per raggiungere il molo di San Marco dove intorno alle 15.45, tra le colonne di Marco e Todaro, sarà salutato dalle autorità (il sindaco di Venezia, in particolare, rappresenterà anche gli altri sindaci del territorio diocesano) e rivolgerà il primo saluto ufficiale alla città. Seguirà la processione verso la basilica marciana: mons. Moraglia sarà accompagnato all’interno da tutti i sacerdoti. La celebrazione eucaristica di insediamento avrà inizio, presumibilmente, alle ore 16.30 e in quel momento le chiese del Patriarcato suoneranno le campane a festa. L’ingresso a S. Marco, per evidenti motivi di capienza e sicurezza, sarà possibile solo su invito (i “pass” saranno distribuiti a parrocchie e realtà ecclesiali). Al termine della messa mons. Moraglia saluterà, infine, i fedeli in Piazzetta dei Leoncini prima di salire nel Palazzo Patriarcale.




immagine de Cattolici Romani 

Aquileia 2012? Parte dal web



È raggiungibile all’indirizzo www.aquileia2.it il sito scelto come strumento di contatto e collegamento tra le 15 diocesi del Triveneto per accompagnare il cammino di preparazione al Convegno ecclesiale che si terrà ad Aquileia e Grado dal 13 al 15 aprile 2012. 
Il portale - realizzato secondo le più moderne regole di programmazione per il web - contiene informazioni, vari materiali e notizie utili sull’appuntamento che sta coinvolgendo le comunità cristiane del Nordest, le “testimonianze” offerte in questi mesi dalle Diocesi, i comunicati dell’Ufficio stampa e i contributi multimediali realizzati dalla redazione del sito. 
Grazie ad una procedura automatica in www.aquileia2.it si possono incorporare testi e foto provenienti dai siti dei settimanali diocesani del Nordest, restituendo in tempo reale un quadro complessivo di quanto prodotto dalle singole redazioni. E in modo analogo si possono inglobare e rendere subito disponibili i contributi multimediali provenienti da Tv e radio legate alle Diocesi trivenete. Utilizzando poi una funzionalità del sistema di traduzione istantanea di Google tutte le pagine del sito possono essere convertite in tedesco e in sloveno con un semplice clic.
Il portale gode, inoltre, interagisce con i social network: Facebook, Twitter (il sistema di microblogging da 140 caratteri per volta), Flickr (foto) e Youtube (video). 
Il profilo Facebook “Chiese Nordest”, in particolare, può costituire un punto di ascolto e dialogo privilegiato del comitato organizzatore del convegno di Aquileia con gli utenti della Rete, visto il gran numero di giovani e adulti che utilizzano quotidianamente il popolare social network come mezzo per alimentare le relazioni personali e professionali. 
L’email di contatto con la redazione del portale è: web@aquileia2.it




A Vicenza, funerale col ministro



Laici? Avanti tutta. Ma che fine ha fatto il diaconato permanente?

di Elfrida Ragazzo (per Il Corriere del Veneto) 
Arrivano i «ministri della consolazione». Ovvero i laici che, in caso di necessità, potranno aiutare i sacerdoti nel saluto al caro estinto. La gestione dei funerali, compresa la veglia di preghiera prima della celebrazione in chiesa e la chiusura del rito in cimitero, nella diocesi di Vicenza presto potrà essere meno faticosa per i parroci che si trovano a celebrare numerosissime celebrazioni. Soprattutto nelle zone in cui il numero degli anziani supera quello dei giovani. Così la curia vicentina ha deciso di aiutare i preti, dando anche ai laici la responsabilità nell'accompagnare l’ultimo viaggio in terra di chi se ne va, nel nome del Signore.
Ai fedeli, preparati con un corso ad hoc, verrà data la possibilità di sostituirsi al don nella veglia o nella recita del rosario prima della messa, nella preghiera al momento della chiusura della bara e in quella che precede la deposizione della salma nel loculo o a terra. «Verrà fatto cautamente » precisa don Pierangelo Ruaro, direttore dell’ufficio per la liturgia della diocesi di Vicenza. Per vedere persone senza tonaca durante le esequie (funerale escluso, si intende), infatti, si deve aspettare lo specifico rituale redatto dalla conferenza episcopale italiana, che dovrebbe venire pubblicato a breve. Ma i preti vicentini hanno anticipato il regolamento, in modo da non trovarsi impreparati. È stato organizzato così una sorta di seminario suddiviso in quattro incontri in cui sono intervenuti un teologo, un liturgista e una psicoterapeuta, oltre che a don Ruaro. «Hanno partecipato al corso base - spiega - una sessantina di persone, quasi tutti laici. Avevamo fatto un tentativo anche lo scorso anno ma non aveva avuto molto successo, questa volta, invece, siamo riusciti a portarlo a termine ».
Martedì, infatti, è stata fatta l’ultima riunione e, alla teoria, è stata affiancata anche la pratica: ovvero sono state insegnate alcune preghiere da recitare nei momenti del lutto ed è stato spiegato come vanno condotte le varie situazioni. «Il funerale vero e proprio - chiarisce il direttore dell’ufficio liturgico - lo gestirà sempre il prete». Nel volantino che pubblicizza il corso si legge: «La celebrazione delle esequie rappresenta per la comunità cristiana un’occasione privilegiata per l’annuncio di «una vita che va oltre la morte e sfocia nella vita eterna». Contemporaneamente, però, questa stessa esperienza si presenta oggi come momento, oltre che delicato, difficile da gestire. La riduzione del numero dei preti rende sempre più necessario favorire una ministerialità variegata e preparata per manifestare il Mistero di Cristo e della Chiesa che consola». Il rito funebre, insomma, preoccupa i parroci che a volte non sanno come comportarsi. Tra i vari interrogativi c’è quello della riposizione delle ceneri. Un sacerdote di una parrocchia a Valdagno, nell’Alto Vicentino, nel bollettino settimanale ha fatto intendere che a chi non vuole portare le ceneri dei defunti al camposanto potrebbe essere rifiutata la liturgia funebre. «È un momento di stallo - conclude don Ruaro - anche per questo aspetto siamo in attesa di conoscere cosa prevede il rituale delle esequie, poi si saprà cosa fare con esattezza».

Moraglia Patriarca: l'arrivo tra poveri e Liturgia



Preambolo di un episcopato. Per la gioia del Patriarcato tutto. 

di Ugo Dinello (per la Nuova di Venezia e Mestre) 
La prima serata da patriarca, Francesco Moraglia ha chiesto di passarla con i poveri. Anzi, servendo i poveri. Così sabato 24 marzo tra i 12 volontari in servizio alla mensa di Ca’ Letizia, ci sarà anche il nuovo Pastore della diocesi veneziana e futuro cardinale elettore. Moraglia ha anche chiesto di non divulgare questa sua scelta, che la curia non ha comunicato nemmeno ai volontari della San Vincenzo che assicurano la colazione e la cena agli oltre 150 poveri che ogni giorno vengono sfamati dalle cucine di via Querini 19/a. Un’attenzione, quella di Moraglia per gli ultimi, che è stata una costante nella sua vita. Così ad esempio, durante i giorni del gelo il responsabile della Caritas, don Dino Pistolato è stato subissato di telefonate dalla Spezia: Moraglia ha chiesto più e più volte se con il clima abbondantemente sotto zero le strutture assistenziali della diocesi veneziana erano in grado di fare fronte all’emergenza, garantendo un posto al coperto a tutti i senzatetto. Moraglia ha voluto essere informato e costantemente aggiornato sui numeri, le situazioni, le criticità e le eventuali richieste straordinarie in uomini e mezzi da parte della Caritas alla Chiesa veneziana e mestrina. Un ingresso nella diocesi, quello del patriarca eletto, che raccoglierà una serie impressionante di significati simbolici. Accanto alla tradizione, con l’ingresso dal confine occidentale della diocesi (a Mira), ci sarà il futuro: Moraglia si fermerà infatti a Mestre per poter incontrare i giovani di tutte le parrocchie e i gruppi di animatori liturgici. «Vorrei vederli tutti», ha spiegato al comitato d’accoglienza formato da Simone Scremia e don Danilo Barlese. Per questo la sede, che in un primo tempo era stata fissata al Laurentianum, potrebbe rischiare di non contenere tutti i partecipanti all’evento. Poi la serata a Ca’ Letizia, assieme ai dodici volontari della San Vincenzo, sei in cucina e sei in sala, a distribuire i pasti ai più bisognosi. La mattina del 25 Moraglia sarà prima in duomo San Lorenzo e poi a Marghera, da dove nel pomeriggio raggiungerà piazzale Roma e il piazzale della Stazione Santa Lucia per un momento di preghiera davanti alla statua bronzea dell’Immacolata Concezione, voluta dall'allora patriarca e poi papa Roncalli, per la festa dell’Annunciazione e la contemporanea festa del Natale di Venezia. Infine, con un corteo acqueo in Canal Grande, raggiungerà San Marco e farà il suo ingresso in Basilica per il primo Sommo Pontificale. Vista l’ora pomeridiana la Santa Sede potrebbe concedere una dispensa per l’uso dei paramenti bianchi, al posto di quelli viola previsti durante la Quaresima.

Eleganze fiamminghe: l'arazzo dei Concistori



Dentro il capolavoro. Ormai prossimi al quarto Concistoro di Papa Benedetto XVI, proponiamo qualche scatto dell'arazzo di Clemente VII raffigurante Fede, Giustizia e Carità, un tempo componente immancabile dei solenni Concistori pubblici. 




Ritenuto per secoli opera eseguita su cartone di Raffaello Sanzio, l'arazzo è in realtà magnifico lavoro del fiammingo Pieter Van Aelst -arazziere privato di Filippo il Bello- e della sua bottega. Compiuto tra il 1523 ed il 1534, veniva tradizionalmente posto a dossale del trono papale durante numerosi riti, certamente a sottolineare le virtù -Fede, Giustizia e Carità- allegoricamente raffigurate.






Successivamente l'arazzo originale fu sostituito da una copia (come precisa il Moroni ne Cappella Pontificie, cardinalizie, prelatizie), quest'ultima utilizzata sino alle riforme montiniane.




"inoltre vi si adopera la copia della Provvidenza, giustizia e carità eseguite presso l'arazzo di Raffaello, che forma coltre o dossello al trono del Papa ne' concistori pubblici, e nella funzione della lavanda ed altre"
Gaetano Moroni, Le Cappelle Pontificie, cardinalizie, prelatizie


Pio XI tiene Concistoro pubblico nella Sala delle Benedizioni.
Alle spalle del Pontefice la copia dell'arazzo di Pieter Van Aelste



La Compagnia degli Emeronitti al Redentore



Una storica confraternita veneziana che rischia l'estinzione. Diffondiamo e sosteniamo.

di D. Gh. (per Il Gazzettino) 
Potrebbe essere una delle ultime volte che l’antica Compagnia degli Emeronitti si riunisce a Carnevale per pregare e meditare in riparazione dei comportamenti dissoluti della kermesse carnascialesca. Mancano le vocazioni e i confratelli, ormai tutti anziani, sono rimasti in nove. Per questo motivo il priore della Compagnia, Giovan Battista Pistorello, lancia un appello a giovani e adulti di sesso maschile (il sodalizio non è aperto alle donne) che vogliano continuare la loro tradizione di adorazione eucaristica. «Purtroppo – spiega Pistorello - finora qualcuno arriva incuriosito ma dopo qualche volta rinuncia per altri impegni. Rischiamo di estinguerci. Chi volesse informazioni o desiderasse entrare a far parte del nostro gruppo può chiamarmi al numero di telefono 0415265524».
Da ieri [sabato 11 ndr] i confratelli sono in ritiro alla Giudecca per le 40 ore consecutive di preghiera nella chiesetta di Santa Maria degli Angeli, all’interno del convento del Redentore, insieme a una quindicina di confratelli e diaconi provenienti da Roma e al nuovo assistente, padre Luca Crivellato. L’adorazione terminerà domani alle 14 con la processione alla chiesa del Redentore. Le porte del convento dei cappuccini del Redentore sono aperte nelle ore diurne dalle ore 8 a qualsiasi persona che desideri unirsi in preghiera con i confratelli e avere notizie riguardanti la compagnia.




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